La storia è talmente gigantesca e trascurata che molti, ancora oggi, si chiedono se sia vera e non si tratti, piuttosto, dell’ennesima bufala del web. Purtroppo, la storia dei 98 miliardi di euro che i concessionari delle slot machine devono al nostro Stato è verissima.


Le dieci concessionarie del gioco d’azzardo devono allo Stato 98 miliardi di euro. Cifra mostruosa: l’equivalente di 4  manovre finanziarie, per intenderci.
Come spiega Il Secolo XIX, prima del 2002 i videopoker erano considerati illegali ed erano quasi completamente in mano alla criminalità organizzata, che faceva guadagni sensazionali.
Poi lo Stato decise di regolare il settore. Con una prescrizione categorica: ogni singola macchinetta doveva essere collegata al sistema telematico di controllo della Sogei. Perché neanche una giocata sfuggisse al controllo e soprattutto alle tasse, il Preu. Così non è avvenuto, per anni. Il sistema ha fatto cilecca. Gli apparecchi, “interrogati” a distanza dal cervellone del ministero, non davano nessuna risposta (Il Secolo XIX).
Ma come fu possibile arrivare a multare le concessionarie del gioco d’azzardo? Grazie soprattutto alle indagini dell’ex Colonnello della Guardia di Finanza Umberto Rapetto. Il lavoro dell’esperto di crimini informatici era durato anni e aveva accertato l’esistenza e la consistenza del danno al nostro Stato. In un Paese normale, Rapetto avrebbe fatto carriera, magari sarebbe diventato anche ministro. Invece gli è successo l’esatto contrario, visto che lo scorso anno si è dimesso. Dimissioni si fa per dire, visto che il colonnello ha fatto intendere di essere stato costretto a farsi da parte proprio per le sue clamorose indagini sulle slot machine, ma non solo. Durante la sua brillante carriera, infatti, Rapetto si è più volte scontrato coi poteri marci del belpaese.
Intorno al mondo dei giochi, in particolare, ruotano interessi immensi e non sempre confessabili. Quelli delle società concessionarie, ma anche dei partiti che sui giochi hanno scommesso molto. E poi, convitato di pietra, c’è la criminalità organizzata che vede nelle macchinette una nuova miniera d’oro. La grandezza della somma è inversamente proporzionale alla pubblicità che la vicenda ha avuto. È il 2005 quando il Gat (Gruppo Antifrodi Tecnologiche) della Finanza comincia a occuparsi della storia. Decine di migliaia di slot machine non sono collegate alla rete che registra le giocate. Addirittura in un locale di Riposto (Catania) risultano depositate 26.858 slot in 50 metri quadrati. È solo l’inizio. Quando gli agenti tentano una stima della penale non credono ai loro occhi: si sfiorano i novanta miliardi.
Intanto una commissione di esperti guidata dall’allora sottosegretario all’Economia, Alfiero Grandi(Pd), e dal generale delle Finanza Castore Palmerini produce un documento: una bomba che però non esplode. In troppi sono interessati a disinnescarla. È soltanto grazie all’opinione pubblica, alle inchieste giornalistiche, se il lavoro della Commissione, del Gat e di alcuni magistrati coraggiosi della Corte dei Conti non finisce sotto silenzio. Le slot sono una miniera per tanti. E le conclusioni dei pm sono un terremoto per un settore senza controlli. La Procura inizialmente parla di penali per 31 miliardi e 390 milioni per il concessionario Atlantis World. A seguire Cogetech con 9 miliardi e 394 milioni, Snai con 8 miliardi e 176 milioni, Lottomatica con 7 miliardi e 690 milioni, Hbg con 7 miliardi e 82 milioni, Cirsa con 7 miliardi e 51 milioni, Codere con 6 miliardi e 853 milioni, Sisal con 4 miliardi e 459 milioni, Gmatica con 3 miliardi e 167 milioni e infine Gamenet con 2 miliardi e 873 milioni. In totale, 88 miliardi.
Emergono i contatti di alcune società con la politica. A cominciare da quella che fu An, proprio con i finiani.  Amedeo Laboccetta, ex plenipotenziario di Fini a Napoli era amministratore di Atlantis Italia (oggi è in Parlamento, vicino a Berlusconi e giura di non avere più niente a che fare con le slot). Già, proprio la Atlantis di cui ha parlato nei giorni scorsi Il Fatto. La Atlantis World Nv, con base alle Antille olandesi, è controllata da una lunga catena di off-shore e trust che sarebbe riferibile aFrancesco Corallo, figlio di Gaetano, condannato a sette anni e mezzo per associazione a delinquere. Ma nell’universo dell’Atlantis si trovano altri nomi: come James Walfenzao che compare anche nelle società off-shore dell’appartamento di Montecarlo. Come ha ricordato Il Secolo XIX, a occuparsi degli affari di Atlantis in Italia ci sarebbe stato anche Giancarlo Lanna, già commissario napoletano di An scelto dal ministro Adolfo Urso come presidente della Simest – finanziaria a controllo pubblico – e oggi è approdato a FareFuturo.
Ds e Lega a suo tempo si erano buttati, senza fortuna, nel Bingo, mentre An aveva puntato sulle slot. Non è un caso che la delega per i giochi nei governi berlusconiani sia andata a uomini di An. Una delle poltrone chiave dei Monopoli dello Stato era andata a Gabriella Alemanno, sorella del sindaco di Roma. Così, mentre la Procura della Corte dei Conti conduceva in solitudine l’inchiesta, i Monopoli guidati all’epoca da Giorgio Tino non esigevano le penali. I pm hanno chiesto 1,3 miliardi di danni a Tino, nel frattempo nominato vicepresidente di Equitalia Gerit.
Intanto lo Stato rinegoziava le convenzioni stabilendo nuove penali irrisorie. Dagli atti parlamentari dell’audizione di Tino emergono le posizioni degli onorevoli. Gianfranco Conte (Forza Italia) disse: “Chi è esperto del settore si è accorto della stupidità della Commissione (gli esperti che denunciarono lo scandalo, ndr). Romano Prodi, sommerso da migliaia di mail, promise: “Non ci sarà un colpo di spugna”. Silvio Berlusconi ha sempre taciuto.
Il lavoro dell’ex colonnello non può andare perduto. L’Italia deve ancora riscuotere questi 98 miliardi. L’unico a parlare dell’argomento, in campagna elettorale, è stato Beppe Grillo. Il Pd faccia un passo avanti e dia battaglia sulla questione. Con questi soldi, (96 miliardi sono l'equivalente di 4 finanziarie) si potrebbe realmente salvare l’Italia. Se si vuole.